Tra rassegnazione e speranza: la Palestina non è lontana

Articolo apparso su ParmAteneo il 1 novembre 2014.



“Se questa registrazione diventa di dominio pubblico e viene fuori che ho una posizione filo-palestinese, potrei avere dei problemi la prossima volta che torno nella mia terra natale. E non voglio”.

L’intervista si è appena conclusa. Gli occhi di Hanzala, nome di fantasia per tutelare l’intervistato, ci scrutano attentamente (L’eterno conflitto? Non è solo una questione religiosa). Ha lo sguardo cupo di chi vive un conflitto interiore, in bilico tra dubbi e consapevolezze, rassegnazione e speranza.
“Non potreste occultare il mio nome?” domanda. Dal suo punto di vista, esiste un conflitto che lo accompagna da tutta la vita e che, probabilmente, ha accompagnato anche quella dei suoi genitori: la guerra tra Israele e Palestina (Storia della Palestina: le tappe del conflitto). Per lui, arabo palestinese con cittadinanza israeliana, è una continua sofferenza tra ciò che vede e non poter esprimere quello che pensa: per uno che ha la cittadinanza israeliana, dirsi filo-palestinese equivarrebbe a perdere il diritto di tornare a casa perché gli ritirerebbero i documenti. Per noi italiani, queste sono cose fuori dal mondo e fuori dal tempo. Per Hanzala è realtà quotidiana.
A Parma esiste una comunità palestinese che studia, lavora, ama, si diverte. Vive. Ma in che modo? Quanti sono, cosa pensano, cosa fanno sono questioni che pochi conoscono, purtroppo. E l’ignoranza fa sì che non si tenga conto dei diritti fondamentali di ogni essere umano.

I PALESTINESI IN CITTA’ – La prima domanda che qualsiasi studioso o interessato si potrebbe porre, è relativa alla mancanza di dati precisi sui flussi migratori dalla terra palestinese verso i Paesi europei o, più generalmente, del mondo. La risposta è che dal ’48 al ’56 i cittadini palestinesi non venivano riconosciuti in quanto tali e non possedevano alcun tipo di documento. In quel periodo furono costretti a richiedere il rilascio dei documenti presso le autorità delle nazioni vicine: Israele, Giordania, Siria e Libano.
La questione diventa ancor più complicata se qualche palestinese pensasse di andare all’estero, anche solo per godere della tranquillità di una vacanza. Ad esempio, Siria e Libano non rilasciano alcun tipo di passaporto ai loro cittadini, ma un semplice lasciapassare dalla validità assai breve.

A quanto riferisce Iyad Younis (Palestina non è sinonimo di terrorismo), palestinese residente a Parma da 35 anni, tra famiglie e studenti attualmente, a risiedere nella città di Verdi sono circa in 200-250.
Un altro fattore da tenere in considerazione è che fino a vent’anni fa la comunità palestinese a Parma era più allargata e meglio organizzata. Le principali motivazioni che soingevano i palestinesi in città era l’acquisizione di una solida formazione scolastica (specialmente universitaria). Giunti al termine degli studi, alcuni di loro si sono fermati a vivere qui creando una famiglia. Ad oggi invece i numeri dei nuovi arrivati sono calati in modo vertiginoso e i veterani arrivati anni fa guardano con rimpianto ai tempi in cui l’afflusso era maggiore, ritenendo la questione dell’istruzione molto importante. Per riuscire ad assicurarsi documenti validi (che siano per una vacanza, o per venire a studiare) i palestinesi in arrivo da fuori devono avere come garanti amici o parenti che risiedono in Italia, ai quali potersi affidarsi durante la loro permanenza (in cui hanno l’obbligo di presentare estratti conti e documentazioni di vario genere).

Alla luce di questi fatti, è una situazione molto delicata quella che si ritrova ad affrontare la comunità palestinese, legata anche alla mancanza di strutture a cui appoggiarsi momentaneamente o chiedere aiuto. Ciò è dovuto al fatto che in Italia non è riconosciuto lo Stato di Palestina. Tuttavia, bisogna ricordare, a onor di cronaca, che a Parma c’è stato un riconoscimento simbolico da parte dell’amministrazione comunale con l’installazione della bandiera palestinese accanto a quella di Israele e a quella della pace sul ponte delle Nazioni.

IL GRUPPO AZIONE PALESTINA – Nasce nella nostra città, 5 anni fa, il Gap (Gruppo Azione Palestina) con l’obiettivo di dare un appoggio alla comunità palestinese che risiede a Parma. Una delle iniziative è quella di chiedere una sede per la comunità, un punto di riferimento in cui potersi ritrovare e poter svolgere diverse attività di ogni sorta o semplicemente un punto di ritrovo. Il Gap si schiera dalla parte di un popolo oppresso, che è stato privato della propria terra, della cittadinanza, con il sogno che perdura da anni di vedere riconosciuto il loro Paese come Stato e la libertà in tutte le sue sfaccettature.
Un uomo palestinese che fa parte del gruppo, durante una riunione ha toccato il cuore dei presenti con una frase che fa comprendere cosa significhi trovarsi, per lui, in un paese straniero e nonostante ciò, di poter contare sull’appoggio di persone che sostengono la causa palestinese: “Dentro di me sento che mi dà forza e calore il fatto che ci siate voi che organizzate per noi iniziative per sostenerci e mettere in mostra la questione palestinese, poiché prima di tutto è una questione morale.”

RIAVVOLGENDO IL NASTRO – A questo punto, a fronte delle tante cose raccontate da Hanzala, ritorniamo da dove era iniziato il nostro racconto. Il nome del ragazzo palestinese intervistato è un nome di fantasia, modificato come sua esplicita richiesta. Il motivo è semplice quanto inquietante. Lui è uno dei cosiddetti arabi del ’48, cioè quelle persone che al momento della creazione di Israele hanno preso la cittadinanza israeliana. Se dichiarasse esplicitamente di essere filo-palestinese rischierebbe di perdere la cittadinanza e quindi di non poter più tornare a casa. La punizione per avere delle idee contrarie a quelle che vigono nello Stato di cui si è residenti è restare confinati in un limbo: non potrebbe più rivedere la famiglia che ha lasciato in Israele, tuttavia non apparterrebbe comunque allo stato di residenza, ovvero l’Italia. Perciò non svela la propria identità, ma vuole parlare a cuore aperto e schiettamente della situazione attuale. In Italia si trova bene, studia, esce con gli amici ma la sua casa resta la Palestina, uno Stato che formalmente non esiste, o meglio, non viene riconosciuto. Il suo sguardo si abbassa quando pronuncia le ultime parole dell’intervista, la voce si fa roca perché le parole che pronuncia vengono direttamente dal cuore.

“Vorrei dire due cose. Se questa registrazione diventa di dominio pubblico e viene fuori che io ho una posizione filo-palestinese, potrei avere dei problemi la prossima volta che torno nella mia terra natale. Non voglio. Inoltre – continua – vorrei dire ai piccoli, alle generazioni nascenti, che bisogna smetterla con l’odio tra arabi ed ebrei. Cinquant’anni fa gli ebrei che arrivarono in Israele non odiavano gli arabi perché sapevano e avevano visto come gli arabi si erano comportati con loro. Oggi, invece, le nuove generazioni odiano gli arabi e li identificano come una minaccia. Così non va. I piccoli non devono vedere tutto questo odio. Solo così, un giorno, avremo la speranza che le cose cambino“.

Silvia Moranduzzo, Giulia Berni, Luca Mautone, Eliana Tripaldi

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