Philomena: una realtà ancora da scoprire

“Io la perdono, sorella Hildegarde”
(Philomena a una delle vecchie suore del convento di Roscrea, Irlanda)

Tra i tanti film consigliati da vedere al cinema durante le vacanze di Natale, sono stata piacevolmente sorpresa di vedere l’ultimo film di Stephen Friars (The Queen - La regina, con Helen Mirren), un altro biopic tratto da una storia vera: Philomena, con il premio Oscar Judi Dench e Steve Coogan nei ruoli principali.



La storia è un susseguirsi di flashback, iniziando dall’inizio dagli anni Duemila: Martin Sismiche (Coogan), ex giornalista e politico, viene licenziato dal suo incarico di portavoce del governo e cerca un lavoro; ad una festa gli viene proposto dall’editrice di un giornale di scrivere un articolo strappalacrime che attiri il pubblico e una delle cameriere, Jane (Anna Maxwell Martin), gli propone la storia della propria madre, Philomena Lee, finalmente rivelata dopo cinquant’anni di silenzio.
Nel 1953 Philomena (da giovane interpretata da Sophie Kennedy Clark), una giovane ragazza irlandese, rimane incinta di un ragazzo conosciuto alla fiera e per questo viene scaricata dai parenti nell’Istituto Magdalene di Roscrea, dove da alla luce il piccolo Anthony e dove sarà costretta a rimanere per quattro anni, vivendo una vita fatta di ristrettezze e durezza e sotto la severissima sorveglianza di sorella Hildegarde; il bambino, a quattro anni, sarà poi dato in affido dalle suore ad una famiglia a lei sconosciuta. Dopo i quattro anni di servizio obbligatori nell’Istituto, Philomena diventa infermiera e forma una propria famiglia, ma non ha mai perso la speranza di poter un giorno riabbracciare il figlio perduto.
Da questa vicenda, Martin Sixsmith ha scritto poi un libro, intitolato The Lost Child of Philomena Lee (in Italia intitolato Philomena ed edito da Piemme).

A differenza del biopic sulla regina Elisabetta, dove c’è la tensione e la rigidità della famiglia reale di fronte al funerale della principessa Diana, la situazione difficile che il film racconta viene permeato da un delicato sense of humor, evitando così di rendere la storia stucchevole o melensa.

È interessante vedere il confronto tra i due personaggi: da un lato Martin e dall’altro Philomena.
Martin Sixsmith ha appena perso il lavoro e cerca disperatamente la sua occasione per riscattarsi, trovandola nel suo impiego da giornalista dopo tanto tempo; all’inizio è tangibile il fatto che lui intraprenda questa investigazione solo per soldi, ma alla fine si dimostra realmente affezionato a Philomena, tanto che non demorde nemmeno quando scopre la sorte di Anthony o quando propone alla donna, vedendola in uno dei suoi momenti di sconforto, di non pubblicare l’articolo. Al contrario, trovando alcune foto d’archivio, si ricorda di averlo incontrato quando era ancora un giornalista, cercando di consolare Philomena con i suoi vaghi ricordi sul figlio perduto. Appare però vulnerabile davanti alla fede incrollabile dell’anziana donna e alla sua ingenuità; Martin è ateo, non crede in Dio, e si chiede perché, se Dio esiste, Egli ha permesso che i cattolici maltrattassero quelle povere ragazze, colpevoli di essere diventate madri a causa della loro ingenuità ed ignoranza: non perdona alle suore il parto podalico e senza antidolorifici di Philomena, non perdona loro le ristrettezze cui hanno costretto quelle povere ragazze madri, né perdona sorella Hildegarde l’essere stata così dura nelle sue convinzioni che, a suo dire, giustificavano il suo silenzio. È di grande enfasi la battuta di Martin all’anziana suora, dopo che questa è perdonata da Philomena:

“Al posto suo, io non l’avrei perdonata”

Philomena, invece, è il personaggio che intenerisce di più; non soltanto per la sua situazione personale, ma per la sua personalità: non è colta (riunisce Oxford e Cambridge in una sola località, Oxbridge), è molto istintiva, ingenua e chiacchierona, ma al tempo stesso è di una grande dolcezza e di buona compagnia; grazie a queste peculiarità riesce a far ridere lo spettatore, soprattutto con battute come: “Non sapevo nemmeno di avere un clitoride!”, e dimostra, nonostante tutti quegli anni di privazioni passate in gioventù, di avere ancora una fede incrollabile e la capacità di riuscire a perdonare chi le ha fatto del male. 

Già con Steve Coogan e Judi Dench la scelta del cast è stata più che azzeccata.
Steve Coogan lo ritroviamo dopo aver vestito i panni dell’ambiasciatore austriaco alla corte francese in Marie Antonietta (2006, di Sofia Coppola), Una Notte al Museo 2 (2009, nel ruolo di Ottavio) e Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo - Il ladro di Fulmini (2010, nel ruolo di Ade); in questo film, l’attore veste anche i panni di co-sceneggiatore e produttore, dimostrandosi ancora una volta capace di passare da un ruolo comico ad un ruolo più drammatico e introspettivo con sorprendente abilità e di saper collaborare con serietà nella sceneggiatura e nella produzione di un film.
Judi Dench (M nella saga di 007, da GoldenEye a Skyfall, la zia di Mr Darcy in Orgoglio e Pregiudizio di Joe Wright (2005) e premio Oscar come Miglior Attrice Non Protagonista per i suoi otto minuti di comparsa in Shakespeare in Love nelle vesti della regina Elisabetta I) riesce a dare spessore al personaggio di Philomena, dimostrandosi abile di passare dal dramma alla leggerezza e di saper interpretare un personaggio molto ingenuo e al tempo stesso deciso con grande abilità. A mio avviso, direi che questa è la buona occasione per la giuria degli Academy Awards di darle il premio come Miglior Attrice.

La storia però serve a far riflettere su una realtà che è venuta a galla da poco.
Gli Istituti (o Case) Magdalene (da Maria Maddalena, la meretrice che poi si convertì al cristianesimo e divenne seguace di Gesù durante i suoi anni di predicazione) sorsero in Irlanda nel XIX secolo, all’inizio come luogo di protezione per le prostitute, diventando poi dei veri istituti gestiti dalla Chiesa cattolica nelle persone di preti e suore; da luoghi di breve permanenza divennero luoghi di permanenza più lunga, con regole più ferree e severe e con un solo pensiero: solo attraverso il lavoro, la rinuncia e le ristrettezze si potevano espiare i propri peccati. I lavori svolti dentro quei luoghi erano principalmente lavori di lavanderia, tanto che le Magdalene furono note come Magdalene Laundries (Lavanderie Magdalene); fu grazie a questa manovalanza sottopagata e alla vendita dei bambini avuti da queste giovani donne che gli Istituti Magdalene poterono prosperare. 
Le donne che furono costrette a soggiornare in quei luoghi, con il passare degli anni, non furono più solo le prostitute: bastava essere o troppo bella o troppo brutta per entrare, così come bastava una gravidanza indesiderata o uno stupro o avere una mentalità più aperta rispetto a quella della società del tempo per entrarvi; e gli abusi perpetrati lì dentro (perché si tratta proprio di questo) furono giustificati con il dover far espiare a quelle ragazze i loro peccati. Le donne furono addirittura costrette certe volte a diventare lavandaie e le suore che le seguivano le persuadevano a continuare la loro permanenza in quegli istituti e a incoraggiarle alla “penitenza per i loro peccati”.
Questa realtà venne a galla soltanto nel 1993, quando un ordine di suore vendette ad un imprenditore alcuni terreni attorno al loro convento; nel luogo furono trovati i resti di 155 donne racchiusi in tombe anonime, scoperta che destò lo scalpore e le critiche quando si venne a conoscenza del fatto. L’ultimo Istituto Magdalene fu chiuso soltanto nel 1996. Nei 150 anni di storia di questa istituzione si contano 30.000 donne ospitate, ma ancora oggi è difficile fare una stima dei danni subiti da queste giovani.
Maggiori informazioni sono state scoperte nel 1998 con il documentario “Sex in a Cold Climate”, dove alcune ex detenute raccontarono gli abusi subiti dalle suore e dai preti, non soltanto abusi fisici e psicologici, ma anche sessuali, soprattutto a causa all’isolamento alle quali erano costrette in quei posti. Questo documentario è alla base del film del 2002 Magdalene del regista e attore Peter Mullan (apparso in Trainspotting, Braveheart - Cuore Impavido e Harry Potter e i Doni della Morte - Parte I), dove vengono narrate le vicende di alcune ragazze di un Istituto Magdalene e la durezza, le privazioni, la severità e le percosse dell’Istituto; alla fine, una ragazza viene finalmente portata via dai familiari, una ragazza viene internata in manicomio dopo l’esperienza estenuante vissuta nel luogo e due ragazze riescono rocambolescamente e miracolosamente a scappare dall’Istituto.
Di fronte a queste vicende, non possiamo fare a meno di sentirci come Martin Sixsmith: che razza di Dio è, Colui che dice che gli esseri umani davanti a Lui sono tutti uguali se poi le donne vengono trattate in questa maniera? Come si può parlare di carità cristiana davanti a simili condizioni di vita? Chi erano questi religiosi e queste suore, per trattare così queste giovani donne, colpevoli di essere ciò che la società bigotta del tempo non voleva che fossero?
Sono queste le domande che lo spettatore (e il lettore del libro) si pone, soprattutto per cercare di capire cosa ha portato il clero irlandese a trattare in questo modo le ragazze, colpevoli di essere o troppo belle o troppo brutte, colpevoli della loro ingenuità ed ignoranza sul sesso, colpevoli di essere vittime di stupri, colpevoli di non pensarla come le bigotte comunità cattoliche irlandesi in cui vivevano; forse, se ci fosse stata più informazione, non sarebbe successo niente a queste ragazze, ma purtroppo sappiamo bene che non è con i “se” che si scrive la storia.

Da credente non praticante mi viene da pensare che ci vorrebbero persone come Martin Sixsmisth, pronte ad indagare per cercare di scoprire la verità, per porsi delle domande sui fatti, per poter offrire la propria vicinanza a chi soffre, per poter aiutare gli altri; ma credo ci vorrebbero anche persone come Philomena Lee, persone che abbiano ancora quello sprazzo di ingenuità e ilarità, quella compassione e curiosità e soprattutto quella capacità di perdonare chi ci ha fatto del male.
Perché la domanda che dobbiamo porci alla fine è: saremmo stati in grado, come ha fatto Philomena, di perdonare?


Francesca Santinello

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