Donne in conflitto - Anteprima

In attesa che arrivi marzo 2021, quando i lettori riceveranno il libro a casa, Bookabook ha messo a disposizione una piccola anteprima. Il testo fa parte del prologo, la prima parte dell'inchiesta.
Buona lettura.

A volte dare una definizione non è semplice. Per esempio, cosa vuol dire “amare”? Secondo il vocabolario significa provare sentimenti per qualcuno o qualcosa. E cosa vuol dire “libertà”? Non avere freni o impedimenti. Eppure sembrano definizioni riduttive.

Una donna che vive in un paesino vicino a Betlemme ha detto che ama suo marito perché la mantiene e non la picchia. Per noi, in Occidente, amare significa sentire le farfalle nello stomaco, provare desiderio, passione e affetto, significa essere felici con un’altra persona.
Il concetto di libertà è ancora più complicato. Si può definire libero un popolo che deve rinchiuderne un altro e minacciarlo per poter sopravvivere? Sono liberi gli israeliani che vivono tutti i giorni nella paura di un attentato? Secondo la visione occidentale, questa non è libertà.
In Israele e Palestina ogni giorno ci sono scontri, feriti, morti in nome della libertà di esistere del popolo ebraico. In Palestina ogni giorno ci sono donne che si sposano perché costrette dalla famiglia e altre che invece lottano.
La questione palestinese è estremamente complessa. Irrisolta da decenni, volutamente o meno, si è resa così ingarbugliata dall’essere difficile persino analizzarla. In questa sede non si intende nemmeno provarci. Descriverò ciò che ho visto e sentito, sarà il lettore a decidere cosa pensare.
Il viaggio comincia dalla capitale delle tre religioni monoteiste più importanti: Gerusalemme. Percorre i vicoli della Città Vecchia fino ad arrivare a Betlemme. Poi si vedrà Ramallah, sede del checkpoint più temuto di tutta la Palestina per finire in quella che viene definita la Miami d’Oriente, Tel Aviv. Mondi completamente diversi, per alcuni aspetti opposti, che si incrociano e si uniscono in una sinfonia di paure e incertezze.

Il racconto non può che partire dalle premesse. Tutto comincia un pomeriggio al mare, a Sottomarina. Sono con colui che qualche mese più tardi sarebbe diventato il mio ragazzo. Entrambi stiamo per affrontare l’ultimo anno di corso magistrale e pensiamo alla tesi. Non ho idea di quello che voglio fare. Da una parte vorrei continuare gli studi sugli anni Settanta, dall’altra volevo viaggiare.
“Perché non vai in Palestina e parli di donne?” mi chiede Nicola. Ecco la domanda che ha dato inizio a tutto. Esplorare un territorio dove si combatte una guerra civile da decenni e trattare di tematiche femminili, sempre ridotte a discorsi semplicistici. Un’inchiesta, esattamente ciò che poi avrei voluto diventasse un mestiere.
Così comincio a riflettere e una volta rientrata a Parma, dove studio, vado dall’unico docente giornalista del mio corso a proporre una tesi sulla condizione femminile palestinese.
“Guardi, io non mi prendo responsabilità. Lei vuole andare in un luogo dove c’è un rischio concreto e se non riesce a trovare una sorta di protezione non seguirò la sua tesi” mi dice. Ecco il primo scoglio. Mi servono contatti. Parlo con tutte le persone che conosco, scrivo a giornalisti, scrittori, politici e persino all’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. E mi rispondono pure. Ma non possono darmi un aiuto concreto. La soluzione arriva da un ordine cattolico. Un amico mi presenta un prete che ha abitato a Gerusalemme per anni e che mi mette in contatto con le suore della Casa Mater Misericordiae, una struttura situata nella zona Est della città (quella araba) e a pochi metri dal muro. Grazie a lui riesco a parlare anche con delle suore che vivono in un paesino vicino a Ramallah, Ein Arik. Tramite i genitori di un altro amico, invece, entro in contatto con suor Donatella, direttrice dell’ospedale pediatrico di Betlemme.
Così torno dal professore e gli chiedo di nuovo se accetta la mia tesi. Per fortuna, si dimostra entusiasta del progetto. Comincio a leggere a più non posso tutto quello che posso sul conflitto israelo-palestinese mentre Nicola va a parlare con un ex contractor per capire come ci si doveva muovere in circostanze di difficoltà. Le nostre regole sono semplici e chiare:

– Tutte le interviste dovevano essere salvate sul Cloud o su Dropbox. Nessun foglio, nessun appunto, nessuna registrazione.
– In caso di assembramenti andarsene.
– In caso di attentato nascondersi, se possibile scappare.
– Mai mentire, meglio omettere.
– Trovare una storia di copertura per persone non fidate.
– Portare sempre con sé il passaporto, ovunque. Un turista straniero, in linea di massima, non corre pericoli.
– Non uscire la sera se non accompagnati da persone del luogo.
– Non indossare vestiti che possano attirare l’attenzione.

Finalmente arriva il grande giorno. Partiamo la sera per arrivare la mattina a Tel Aviv. Prendiamo un treno fino a Milano e poi una navetta per l’aeroporto di Malpensa. Dobbiamo aspettare sei ore il nostro volo e dove siamo non ci sono negozi né bar aperti. Conquistiamo due sgabelli e cerchiamo di riposare ma non dormiamo per paura che ci rubino i bagagli: ovviamente il check-in non lo possiamo ancora fare quindi abbiamo tutto con noi. Ne approfittiamo per cercare di imparare alcune parole in arabo, come “Al salam alaikum” che è il saluto più educato (significa “che la pace sia con te”) o “Sukran” che vuol dire grazie. Con noi altre sei o sette persone stanno aspettando.
Sono emozionata, impaurita ed eccitata insieme. È un miscuglio di sentimenti strano, vorrei scappare a casa e al contempo non vedo l’ora di arrivare e iniziare a parlare con qualcuno. Finalmente si apre il check-in e poi passiamo i controlli. Si parte.

L’aeroporto di Tel Aviv è immenso. Una grande fontana si trova al centro dell’atrio principale e tutt’intorno si schiudono boutique e negozi di ogni genere. I muri sono piastrellati con marmo aranciato e grandi vetrate pulitissime mostrano le piste che si snodano al di fuori dell’edificio. Si passa un primo controllo dei passaporti, per poi proseguire fino a quello che si rivelerà essere solo il primo di una lunga serie di interrogatori. Gli israeliani sono un popolo diffidente, cresciuto nella paura di attentati e nella consapevolezza di aver costruito la propria casa in terra altrui. Le forze dell’ordine non tentano di mettere a suo agio il turista, anzi, lo trattano come fosse colpevole di un qualche reato. Davanti a loro ci si sente come un bambino colto in flagrante con le mani nel sacchetto dei biscotti.

La signora al di là del vetro vuole vedere di nuovo i passaporti. Chiede quale sia l’alloggio, dove si trovi, quanto tempo durerà la permanenza, se si conosce qualcuno che risiede in Israele, se è la prima visita, dove si intende andare, perché si è lì. Le nostre risposte sono studiate: dire a un rappresentante del governo israeliano che si è venuti nel Paese per vedere di persona come vengono trattati i palestinesi, popolo vessato da decenni proprio dagli israeliani, non è una grande idea. Tuttavia, mentire sarebbe peggio. Così omettiamo i “dettagli”: alloggeremo alla Casa Mater Misericordiae di Gerusalemme, dalle suore, resteremo due settimane, conosciamo solo tre suore cristiane, è la prima volta che visitiamo Israele, andremo in pellegrinaggio come turisti. Evitiamo di dire che la nostra meta è la Palestina e che tra una visita a un luogo sacro e l’altro farò una serie di interviste a donne palestinesi.
Non c’è un israeliano che non rivolga uno sguardo sospettoso ai turisti, a meno che non si tratti dei commessi dei negozi. Anche da lontano fanno grandi sorrisi e invitano a dare un’occhiata alla merce. Il Dio Denaro rende tutti più buoni. Fuori dall’aeroporto il caldo è tremendo, quasi non si respira. Per raggiungere Gerusalemme si può prendere il treno, il taxi o il nesher. Il treno, come ogni mezzo pubblico israeliano, è facile vittima di attentati: nonostante siamo arrivati alla fine del Ramadan e quindi il periodo sia molto tranquillo, il treno non ispira grande fiducia. Il taxi costa moltissimo, circa 200/300 sheckel, mentre il nesher, una sorta di taxi condiviso, ne costa 70. L’unica pecca è che parte solo quando è pieno quindi bisogna aspettare anche qualche ora prima di potersi mettere in viaggio.
Le strade sono ampie e il traffico è scorrevole. Il paesaggio è brullo, colorato d’ocra. Sembra tutto normale e invece, ogni tanto, si trovano degli avamposti di soldati armati. E capisci che non è un posto tranquillo. Ogni tanto si vedono delle lastre di cemento grigie molto alte, appaiono e scompaiono seguendo il paesaggio. È il muro che separa Israele dalla Cisgiordania, il muro del contenimento della violenza per gli israeliani, il muro della vergogna secondo i palestinesi. Una grande barriera tra due popoli che si combattono da decenni e che non fa altro che acuire la tensione.

Ci vuole poco più di un’ora per raggiungere Gerusalemme. La prima cosa che si nota sono uomini e ragazzi vestiti di nero con delle lunghe basette: sono gli ebrei ortodossi che vestono in modo tradizionale. La lunghezza delle basette e la cintura con le frange che indossano sono il simbolo delle varie famiglie. Non essendo abituati, vederli fa un po’ paura. Sono tante figure scure che camminano in fretta senza guardarsi intorno. La paura sarà un sentimento che non ci abbandonerà mai durante il viaggio, sarà una costante.
Per arrivare all’alloggio bisogna prendere un autobus alla Porta di Damasco, dove ci sono i mezzi arabi che servono la zona di Gerusalemme Est. Dire che è sporca è poco: sembra una discarica. Il primo pensiero dei poco informati potrebbe essere “Ecco gli arabi che insudiciano la Città Santa!”: in realtà, nella zona Est non esiste un servizio di pulizia delle strade, di raccolta rifiuti e in alcuni tratti manca anche la rete fognaria. Ovviamente, si tratta di uno dei modi con i quali Israele cerca di mettere in difficoltà i palestinesi per spingerli ad abbandonare Gerusalemme, che più volte ha cercato di reclamare come capitale, senza successo.
Non ci sono orari per gli autobus arabi, si parte quando ci sono abbastanza persone. Anche i numeri cambiano quindi è bene chiedere sempre all’autista se andrà alla destinazione desiderata. La Casa Mater Misericordiae si trova vicino alla fermata “Betfage”, lungo una strada che si inerpica sulle colline. Le vie sono così strette che si ha l’impressione che l’autobus sia snodabile: il grosso mezzo schiva pedoni e auto posteggiate in modi decisamente fantasiosi a una velocità esagerata. Neanche il Nottetempo di Harry Potter può competere con gli autisti arabi.

Casa Mater è enorme e bellissima: il giardino è fresco, una piccola oasi di pace che permette una piccola tregua dalla calura estiva. Sorella Rosalena, che in quel momento ha in mano la gestione della struttura, spiega che c’è stato un calo dei pellegrini perché “la gente ha paura con tutto quello che sta succedendo in Oriente”. Si potrebbe aggiungere che spesso noi occidentali facciamo confusione: per noi non c’è differenza tra sunniti e sciiti, l’Isis è dappertutto, il terrorismo arabo è uno soltanto e tutti i posti sono allo stesso modo pericolosi. La mancanza di informazione impedisce di vedere chiaramente le cose e porta ad avere paura di viaggiare. Dare la colpa ai media che non presentano con chiarezza le notizie è molto comodo, anche se c’è un fondo di verità.
Le caratteristiche principali di Casa Mater sono la pace e l’abbondanza del cibo. A colazione mangeremo biscotti, pane, burro, marmellata di limoni prodotta dalle suore stesse, caffè, latte o tè. A cena ci aspetterà tutti i giorni primo, secondo, contorno, frutta e dessert come se dovessero mangiare sei persone e non due. Pietanze molto buone che hanno contribuito ad aumentare il mio peso di cinque chili. Non che me ne rammarichi visto che sono sempre stata molto magra. La “cura Rosalena” ha decisamente funzionato, motivo in più per tornare altre volte. La notte veniamo svegliati più volte a distanza di qualche ora dai muezzin che cantano dai minareti per richiamare alla preghiera i musulmani. Ognuno canta una melodia diversa e si crea una gran confusione che oscilla tra l’inquietante e il magico. La vista dal tetto della casa è spettacolare: si vede tutta Gerusalemme. Le botti nere della raccolta dell’acqua sulle case arabe, i minareti che svettano in alto illuminati da una luce verde che li fa assomigliare a delle torri aliene, le case costruite le une sulle altre, le strade piccole e strette di Gerusalemme Est contrapposte a quelle spaziose della parte Ovest, un grande e bellissimo edificio in lontananza illuminato a giorno che probabilmente è un albergo. Le montagne e il Mar Morto si possono scorgere quando c’è poca umidità. 
E poi il muro che si snoda in mezzo alle abitazioni. È un pugno in un occhio. Un grosso serpente grigio che striscia tra la popolazione e imbriglia i palestinesi per tenerli lontani dagli israeliani. Una costruzione così brutta, così simbolicamente malvagia che disgusta alla vista e al pensiero. Una piaga, una ferita aperta dalla quale sgorga l’odio. Costruito nell’agosto del 2002, alto tra i quattro e gli otto metri, si estende per 730 chilometri. Doveva avere la funzione di bloccare i terroristi palestinesi dopo le due Intifade, in realtà è servito come strumento di pressione per allontanare i palestinesi dalle terre di Israele, Gerusalemme compresa. Ingloba quasi tutti i pozzi d’acqua presenti nella regione, creando dei problemi non indifferenti visto che l’acqua è una delle risorse più preziose per gli abitanti: la siccità che affligge l’area rende l’approvvigionamento idrico una questione cruciale. La sua funzione di contenimento del terrorismo ha palesemente fallito perché la rabbia dei palestinesi è aumentata a dismisura: moltissimi villaggi sono rimasti isolati, agricoltori non hanno potuto più accedere alle loro terre (e questo ha comportato una grave perdita economica), la privazione della libertà di movimento e le umiliazioni subite ai checkpoint sono solo alcuni esempi di ciò che ha prodotto la costruzione del muro.

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