Stupro filmato e condiviso: la frenesia del web

Immaginate la situazione. Siete in discoteca con gli amici. Vi divertite, ballate e bevete. Andate in bagno e sentite dei rumori strani. Nella toilette a fianco un ragazzo sta stuprando una vostra amica. La prima cosa che dovrebbe venire in mente è di sfondare la porta, allontanare lo stupratore e chiamare la sicurezza. Peccato che non tutti, a quanto pare, siano dello stesso avviso. Un gruppo di ragazzine di 17 anni ha assistito alla suddetta scena e ha filmato la violenza sghignazzando per poi condividere il video. Perché filmare uno stupro invece di fermarlo?

E’ successo a marzo, in una discoteca di Rimini. La vittima non ricordava granché di quella sera e ha capito cosa era successo solo quando ha ricevuto il filmato della violenza il mese dopo. Ovviamente i riscontri medici dopo così tanto tempo sono stati scarsi, ma il ragazzo è stato comunque identificato e la Procura sta indagando. Le amiche non sono iscritte nel registro degli indagati nonostante abbiano assistito ad un reato senza impedirlo, anzi, si siano anche divertite.

Con l’avvento dei social network si dice spesso che ora non ci sono più momenti “vissuti” ma solo momenti “postati”. Tuttavia, la frenesia della condivisione della propria vita dovrebbe avere dei limiti. Non si tratta solamente di godere di un tramonto invece di scattare una foto da postare su Facebook. Come dimostra questo caso, si rischia di lasciar correre o addirittura ridere di un reato grave quale lo stupro.

Secondo una ricerca della Harvard University eseguita da Diana Tamir e Jason Mitchell, potrebbe esistere una spiegazione biologica a questo bisogno di condivisione sul web. I due scienziati hanno sottoposto i soggetti della ricerca ad un esame con risonanza magnetica funzionale nell’atto di raccontarsi o di produrre ipotesi sulle opinioni di altri. E’ emerso il fatto che comunicare ad altri pensieri e emozioni attiva le aree del cervello deputate alla percezione del senso di gratificazione e piacere, le stesse che si attivano quando mangiamo o abbiamo un rapporto sessuale.

Secondo un’indagine di Skuola.net in collaborazione con l’Università di Firenze, il 13% degli adolescenti condivide le proprio foto intime sul web: si parla anche di ragazzi e ragazze sotto i 14 anni. Ciò che colpisce maggiormente è la leggerezza e la superficialità con la quale attuano questi comportamenti: il 22% dichiara di farlo per attirare l’attenzione di qualcuno, il 23% afferma di averlo fatto per scherzo. Una dinamica che può scatenarsi è quella che viene definita “revenge porn”: postare sul web foto e video hard per colpire una persona. Il 17% degli intervistati ne è stato vittima.

Abbiamo di fronte un problema sociale grande. Non si deve demonizzare il web che se correttamente usato può essere una validissima risorsa: tuttavia, bisogna saperlo usare. La non consapevolezza del proprio corpo e della propria sessualità possono portare a danni psicologici gravi. L’ultimo caso di cronaca in Italia riguarda Tiziana Cantone, la protagonista di un video diventato un classico della rete, che si è suicidata a causa dell’umiliazione subita. L’ignoranza dei rischi sulla condivisione delle foto e dei video non può essere sottovalutata. Per esempio, quanti sanno che di ogni foto postata su Facebook si perdono i diritti? E una volta persi i diritti quella foto può essere utilizzata da chiunque per qualunque scopo?

Quella ragazzina vittima di stupro e del video delle amiche, quali conseguenze psicologiche potrebbe riportare?

Secondo la psicologa Elisabetta Rotriquenz, una donna violentata può reagire in vari modi. Può manifestare sintomi di ansia acuta e disturbo post-traumatico da stress. Solitamente tende ad evitare tutto ciò che può essere correlato alla violenza subita, può dimostrarsi disinteressata agli altri a causa dell’incapacità di provare emozioni positive. Dal punto di vista fisico può avere difficoltà a dormire, a concentrarsi, riportare esagerate risposte di allarme: sono comuni pensieri di suicidio, esplosioni di rabbia e sintomi legati allo stress.

di Silvia Moranduzzo

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