I profughi di Cona accampati a Padova, liti e tensioni: sono diretti a Mestre

Pubblicato sul Corriere del Veneto (edizione cartacea) il 22 novembre 2017

L’aria frizzante del mattino, a Piove di Sacco, i 56 profughi di Cona in marcia verso Padova la respirano accampati sotto al monumento ai caduti: «Con la speranza liberati, in vista delle età che verranno» sta scolpito sotto la fiamma eterna. Quasi un buon auspicio. Il secondo giorno di proteste contro l’hub di Conetta, nel Veneziano, parte da qui e finisce, quasi dieci ore dopo, nella palestra di una scuola cattolica di Rubano, alla periferia di Padova. La prossima tappa è Mestre dove oggi è in programma un incontro col Prefetto Carlo Boffi.
Niente marcia, ieri, i migranti hanno deciso di prendere l’autobus e lasciare le bici in custodia dell’amministrazione a Piove di Sacco. Due ore per raccogliere i 160 euro necessari per salire sulla linea Chioggia, Piove di Sacco, Padova. L’arrivo in stazione nel capoluogo euganeo e una mini maratona che stupisce anche gli uomini della polizia schierati in piazza Antenore, davanti alla Prefettura: «Ci hanno messo 20 minuti», da non stargli dietro. Intanto dalla base di Cona, qualcuno esce alla spicciolata per raggiungere il gruppo, ce la fanno in due, portando a 58 i profughi arrivati in pieno centro a Padova.
Ad accoglierli, oltre a un modesto schieramento di forze dell’ordine, quasi un centinaio di sostenitori, esponenti di una galassia che spazia da Usb a Adl, i sindacati di base, ai ragazzi delle associazioni Bios Lab-Sconfinamenti, Open your border, Padova Collio, Catai, Polisportiva San Precario e il Pedro oltre a Spam (collettivo universitario). La delegazione accolta dal prefetto Renato Franceschelli insieme a don Luca Facco, coordinatore della Caritas provinciale e il sindaco Sergio Giordani comprende Finbaar e Mamadou. Poche ore prima la diocesi ribadiva la sofferta decisione di non aprire chiese e strutture parrocchiali. Giordani, che esce poco dopo, spiega che non ci sono margini, le indicazioni della Prefettura sono chiare. Un altro precedente non sarebbe sostenibile dopo la ricollocazione di buona parte dei primi 260 profughi in marcia. Il messaggio che deve arrivare alla base di Cona è: «A rischio il diritto all’accoglienza per chi se ne va». Il bilancio della Prefettura di Venezia, a ieri sera, era questo: a Cona sono rientrati in 24, 14 a Jesolo, dopo una notte all’addiaccio di fronte alla struttura della Croce Rossa, continuano a rifiutarsi di andar via. Intanto, a Cona, altri 13, dopo i 13 dell’altro ieri, sono stati ricollocati in altre località seguendo sempre il criterio dell’anzianità di permanenza. Dopo oltre un’ora la delegazione esce con la consueta proposta: «Tornate a Cona». E la risposta è urlata e unanime: «No, a Cona no». Sembra finita e si teme il muro contro muro. Invece compare il vicesindaco Arturo Lorenzoni che si ferma a parlare con i ragazzi in marcia, varca i cancelli della prefettura per uscirne poco dopo, prendere con sè Finbaar e Mamadou che rientrano. Sembra quasi di assistere alla danza di due sindaci. Tanto che dopo poco Giordani torna.
Verso le 21 il compromesso, giocato sul filo delle condizioni non sindacabili da ambo le parti, sembra fiorire. I ragazzi accettano di passare la notte a Rubano a patto di partire stamattina verso Mestre per vedere il «loro» prefetto e salvando il diritto all’accoglienza che, secondo il decreto Minniti, salta dopo un’assenza di tre giorni e una notte, cioè stasera. Intanto, fuori, c’è suor Francesca Fiorese direttrice dell’Ufficio di Pastorale sociale della Diocesi. Parla fitto con i ragazzi. «La situazione a Cona è impossibile - spiega uno dei profughi - Dormiamo in 400 in una tenda senza riscaldamento, ammassati come bestie. Mangiamo riso tutti i giorni e solo 200 di noi fanno lezione di italiano. Molti bagni non funzionano, abbiamo dovuto scavare una fossa dietro il campo». La maggior parte arriva dalla Nigeria e il viaggio è sempre lo stesso: su un barcone che affonda e chi riesce a restare a galla viene recuperato dalle autorità. Cona è un hub isolato, molto lontano dal centro abitato e i richiedenti asilo si sentono in gabbia. Ieri, Bios Lab ha organizzato raccolte di abiti pesanti e cibo per i migranti «Noi siamo solo di supporto – dice Omid di Bios Lab – Loro si organizzano autonomamente. Loro si organizzano autonomamente. Speriamo che la visibilità che stanno suscitando serva a migliorare la loro condizione».

di Martina Zambon (ha collaborato Silvia Moranduzzo)

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