"Proibito parlare": le inchieste di Anna Politkovskaja

Io vivo la mia vita e scrivo di ciò che vedo

Questa l’idea di giornalismo che aveva Anna Politkovskaja, una delle migliori giornaliste della nostra epoca. Nei suoi articoli riportava fedelmente tutto ciò di cui era testimone, senza dare opinioni personali sui fatti ma lasciando trasparire lo sdegno e il disgusto per tutti coloro che facevano del male agli oppressi. Firmava tutte le sue inchieste e tutti i suoi articoli perché sapeva di essere nel giusto e non aveva paura dei potenti. 
Anna Politkovskaja nasce nel 1958 a New York. E’ figlia di due diplomatici russi che lavorano all’Onu. Si laurea in giornalismo all’Università di Mosca e comincia a lavorare nel 1982 per il famoso giornale moscovita Izvestija. Dal 1994 al 1999 lavora come responsabile nella sezione Emergenze/Incidenti della Obscaja Gazeta e collabora con varie televisioni e radio libere. Nel 1998 va per la prima volta in Cecenia, luogo di soprusi che diventerà uno dei suoi temi preferiti di inchiesta. Dal 1999 comincia a lavorare per la Novaja Gazeta per la quale scriverà articoli al vetriolo contro l’amministrazione Putin. Riceve minacce, un tentativo di avvelenamento nel 2004, le persone che la aiutano nelle sue inchieste spariscono o peggio. Alla conferenza di Reporter Senza Frontiere di Vienna del 2005 ha dichiarato: “Certe volte, le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano. Infatti, una persona può perfino essere uccisa semplicemente per avermi dato un’informazione”.
Il 7 ottobre 2006 Anna Politkovskaja rientra a casa dal supermercato, un appartamento a Mosca. Un sicario la raggiunge e non appena entra in ascensore le spara 4 colpi. Il primo proiettile è quello mortale, ma evidentemente il killer voleva essere sicuro di svolgere le sue mansioni al meglio. Il giorno seguente la polizia sequestra il computer della giornalista e tutti i suoi appunti. L’articolo sul quale stava lavorando riguardava le torture compiute dalle forze di sicurezza cecene del primo ministro Ramsan Kadyrov. Ciò che la polizia non ha preso, è stato pubblicato sulla Novaja Gazeta. Ai funerali presenziarono più di mille persone, tra cui il radicale Marco Pannella. Nessun politico russo. La lapide rappresenta un giornale crivellato di proiettili, una chiara indicazione del movente dell’assassinio secondo l’opinione pubblica.
Nel libro “Proibito parlare” (Mondadori, 2011) sono raccolti gli articoli che Anna Politkovskaja ha scritto in merito a ciò che accadeva in Cecenia, Beslan e ai fatti legati al Teatro Dubrovka. Sono riportati i soprusi e le difficoltà del popolo ceceno dopo le due guerre d’indipendenza: le esecuzioni di massa, i rapimenti e l’occultamento di cadaveri operati dalle forze russe, le privazioni e gli stupri. 

Nessuno ha ricevuto indennizzi per i parenti uccisi o per le case e i beni bruciati. Le conseguenze giuridiche di questa totale irresponsabilità e menefreghismo della procura sono assolutamente reali. Non si tratta di emozioni, ma della misera vita di molta gente sull’orlo dell’estinzione. […] Perché accade tutto questo? Perché la procura generale non vuole indagare su ciò che è palese? 
Tutto questo accade perché il tempo e il luogo lo esigevano. Lo abbiamo detto tante volte che è quasi inutile ripeterlo: c’erano alle porte le prime elezioni, nessuno conosceva Putin, avevano bisogno di una “piccola guerra vittoriosa” e se la sono organizzata giocando con i problemi interni ceceni e con gli umori dell’esercito.”

Senza peli sulla lingua, non nasconde il disappunto e la disapprovazione per il governo al quale non risparmia alcuna critica. Esattamente come quando scrive del Teatro Dubrovka: nel 2002 sono stati tenuti in ostaggio 850 civili da un gruppo armato ceceno che chiedeva il ritiro delle truppe russe e la fine della guerra. Dopo due giorni le forze speciali russe iniettarono nel sistema di ventilazione un agente chimico che ha ucciso 129 ostaggi e 39 combattenti ceceni. Anna Politkovskaja ha documentato le persecuzioni ai danni dei ceceni avvenute subito dopo, accusati di aver partecipato al sequestro senza alcuna prova e la mancata giustizia per le vittime. Racconta con semplicità le testimonianze che raccoglie, dando voce agli ostaggi e ai loro familiari.

”Finalmente ci siamo riseduti in quarta fila, nei posti migliori. Poi, quando tutto ha avuto inizio, tremavamo come foglie. Sereza era impietrito, ha detto subito: “Non ci salveranno”. Io gli dicevo che era impossibile, Putin aveva fatto una tale figuraccia con il Kursk [sommergibile nucleare affondato in circostanze non chiare] che ora ci dovevano salvare per forza… Ma Sereza ripeteva: “No, nessuno si occuperà di noi”. Ho smesso di tremare, non piangevo. Cercavo di tranquillizzare Andrjusa, e lui mi diceva: “Io non ho paura di morire”. Sereza continuava a ripetere che, una volta usciti di lì, ci saremmo sposati, senza aspettare la festa di inaugurazione della casa, avremmo organizzato subito le nozze… Abbiamo dimostrato tutti e tre una grandissima forza interiore. Una cecena si è avvicinata e ha puntato una pistola contro Andrjusa. Io cercavo di proteggerlo. Ma loro non me l’hanno consentito… Ogni volta che cercavo di farlo sedere tra me e Sereza, mi dicevano: “Tu devi stare seduta fra noi, ti difendiamo noi”. Sereza aveva con sé tutti i documenti, anche quelli di ufficiale. Gli ho detto: “Dammeli, che li ficco negli stivali appena mi lasciano andare in bagno”. Ma lui si è rifiutato: “Non disonorerò mai il mio grado di ufficiale, terrò tutti i documenti. Che non sia mai”.”
Tra loro il primo a percepire il gas è stato Andrjusa. “C’è un odore dolciastro” ha detto. Lena, allora, ha inumidito dei fazzoletti. Prima uno per Andrjusa, poi per Sereza, infine per sé. L’ultima cosa che ricorda è di essersi avvicinata la mano al viso. Poi, il vuoto…

Scenari che sembrano quelli di un film e invece sono la terribile realtà di un Paese dilaniato dai conflitti interni e dal malgoverno. Come la strage di Beslan, ultimo capitolo del libro: nel 2004 un gruppo di fondamentalisti islamici e di ribelli ceceni hanno preso in ostaggio 1200 persone tra docenti e bambini di una scuola elementare. Le forze speciali russe hanno fatto irruzione tre giorni dopo e hanno massacrato quasi tutti gli ostaggi. Tuttavia, molti corpi non sono stati ritrovati e le madri di molti bambini sono convinte che i loro figli siano stati rapiti e portati sulle montagne. Alcune di loro stanno ancora lottando per avere un corpo da seppellire e non sono rari i casi di scambio di cadavere.

Una macchina statale che crea per i propri cittadini scenari così terribili non è degna di alcun rispetto: prima il Nord-Ost, poi Beslan. Dunque, cosa ci avete preparato per oggi? Un momento, non è giusto scaricare ogni responsabilità sullo Stato! Non hanno forse permesso le riesumazioni? Lasciate che riparino almeno nei confronti di quelli a cui sta andando peggio. Siamo bravi a mettere le famiglie di quelli già seppelliti contro quelle dei non seppelliti, ma a chiedere spiegazioni davanti a Putin e Dzasochov non ci va nessuno. Quanto tempo lasceremo ancora passare prima di pretendere la verità? E fino ad allora?
Che fine ha fatto questo maledetto servizio psicologico “garantito per tutti”? Dove fa le sue sviolinate Zurabov? Fa rapporto sui suoi successi a Putin? Dov’è questo cosiddetto governo federale? Il governo si è ritirato spontaneamente da tutto. Hanno lasciato Beslan in totale solitudine. E la città sprofonda silenziosamente nella follia.”


Un’ironia pungente e un occhio critico sulla realtà. Persone che senza di lei non avrebbero avuto voce, silenzi disumani gridati al cielo, colpe pesanti di persone importanti sono emerse alla luce grazie ad Anna Politkovskaja.


di Silvia Moranduzzo

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