La pittura del Nord
Pittori più o meno conosciuti
provenienti dalle zone più fredde della Terra sono in mostra fino al 22 giugno
a Palazzo Roverella, Rovigo, portando la loro visione glaciale della realtà.
“L’ossessione nordica” ha accompagnato
nella loro carriera molti pittori italiani di fine ‘800, inizio ‘900: abituati
ai colori caldi e ai temi borghesi dei pittori francesi, la Biennale di Venezia
(tenutasi dal 1895) ha sconvolto gli animi di Mario de Maria, Cesare Laurenti.
Ettore Tito, Pietro Fragiacomo e molti altri, aprendo loro un mondo freddo e
pieno di allegorie e metafore che sono rimasti ben impressi nelle loro menti.
Il fascino dei pittori del Nord ha portato i pittori italiani a riflettere su quella
che Kant chiama la “pittura delle idee”:
i paesaggi drammatici, il simbolismo, la mitologia e la vita dura delle persone
del Nord hanno cambiato il modo di guardare alla rappresentazione pittorica
della realtà. Un esempio eclatante della vita
difficile delle persone del Nord lo offre il pittore danese Michael Peter
Ancher con il quadro Il Pescatore di
Skagen (1892).
Ancher era molto interessato alla vita dei pescatori della
picccola cittadina portuale danese, rappresentandoli con un linguaggio influenzato
dal realismo della tradizione accademica: colpisce molto l’espressione del pescatore
ritratto, segno dell’esistenza difficile dei pescatori, ieri come oggi, e delle
difficoltà collegate a questa vita, simbolo di precarietà e insicurezza; ma ciò
che colpisce è anche la monumentalità del dipinto in sé, quasi a voler
testimoniare l’importanza di ciò che Ancher vuole rappresentare. In
contrapposizione, invece, ci sono i quadri che riproducono le scene di vita
quotidiana tra le mura domestiche, portando allo sviluppo di un filone di opere
di questo genere; ogni dettaglio viene minuziosamente rappresentato e le case
sembrano luoghi avvolgenti e pieni di luce, luoghi dove non possono entrare il
freddo e il buio delle lunghe notti invernali. A fare da capofila è il pittore
svedese Carl Larsson, riproducendo molte volte nei suoi quadri la propria casa
di campagna a Lilla Hyttnäs; il quadro Martina
(1904), mostra la domestica del pittore in una delle sue mansioni quotidiane,
mentre sullo sfondo la cucina riempie lo spazio, dando così importanza nell’economia
della raffigurazione pittorica sia alla domestica che all’ambiente in cui si
trova. Ad agire diversamente è il pittore danese Vilhelm Hammershøi con il
quadro Interno con donna seduta
(1908); a far da padrone non è più il riempimento, ma lo svuotamento dello
spazio, rendendo così protagonista la luce che fa capolino dalle finestre e
dalle porte socchiuse. Grazie a questo desiderio di intimismo minimalista,
Hammershøi fu noto come “il poeta del silenzio”.
Ogni sezione sviluppa un tema
diverso eppure correlato a quello precedente. Fanno da padroni i colori freddi,
a tratti brillanti, a tratti cupi delle tele, come anche la rigidità della
composizione anche per le scene più drammatiche come Scherzo di Franz Von Stuck (1863-1928), pittore noto dal 1880 tra i
Simbolisti come il “Michelangelo” della Germania bismarckiana.
Il dipinto, del
1909, rivela già una plasticità corpulenta delle tre figure protagoniste e una
forza delle campiture che saranno la base della poetica dei fauves, altra notevole avanguardia (“I colori – ha scritto Derain – erano per noi cartucce di dinamite”). L’esplosività
del contrasto poi tra la pelle diafana della fanciulla e le sue guance
arrossate dal riso, e tra il manto del centauro e la veste blu scuro della
ragazza a sinistra, balza subito agli occhi in un concentrato erotico assai
giocoso.
Un altro quadro dello stesso
autore che incuriosisce i visitatori è Il
Peccato (1908), manifesto iconico pittorico della femme fatale del primo Novecento: il quadro, caratterizzato dalle
pennellate scure, rappresenta una donna con un serpente, la cui testa
minacciosa è appoggiata sopra la sua spalla destra.
Ma questa non è solo la
rappresentazione di una donna: in questo quadro, infatti, vediamo una donna che
sta lentamente emancipandosi in una società ancora permeata nel puritanesimo
(una Parade’s End parafrasando il titolo del romanzo
inglese di Ford Madox Ford), vista ora nell’inconscio artistico come una
creatura armoniosa e pericolosa, sensuale e infida: i pittori, suggestionati,
rappresentano attraverso le loro tele figure femminili simili a Salomè, Eva,
Giuditta e Cleopatra. E quella del Peccato
è proprio come una Salomè che “diveniva
in qualche modo la divinità simbolica dell’indistruttibile Lussuria, la dea
dell’immortale Isteria, la Bellezza maledetta (…); la Bestia mostruosa,
indifferente, irresponsabile, insensibile, che avvelenava (…) tutto ciò che
avvicinava, tutto ciò che vedeva, tutto ciò che toccava” (J.K. Huysmans, À Rebours).
È anche la nuova concezione del
nudo femminile a rendere interessante questa mostra: l’abbandono dei vecchi
miti per giungere a nuove forme e nuovi sensi, rendendo talvolta protagoniste
dei quadri la seduzione e la perversione.
Sicuramente, la sezione in cui si
avverte di più l’inquietudine nordica è l’ultima, dedicata alle incisioni in
bianco e nero dove Munch fa da padrone con dei piccoli quadri di una enorme
carica emotiva che esprime il disagio mentale dell’artista. In La vanità si vedono due persone, un uomo
e una donna, che si tengono la testa con le mani: dell’uomo non vediamo il
volto, ritratto chino, in posa implorante, mentre la donna fissa l’osservatore
quasi a volerlo sfidare, con i lunghi capelli neri che si perdono nello sfondo
scuro dell’incisione.
Questo quadro mostra soprattutto l’influenza che avevano
i problemi mentali e di salute dell’autore del quadro, quasi volesse esternare
la disperazione della propria situazione; è sicuro, quindi, che il visitatore
non possa ignorare quel senso di inquietudine alla vista del quadro.
Un altro fil rouge della mostra è il paesaggio, sempre inteso come simbolo
che connota un’atmosfera quasi atemporale, sospesa, meditativa, nella quale l’acqua,
il bosco sono rimandi all’interiorità dell’anima, “cattedrale del silenzio e dell’indivisibile” (Eva di Stefano, Klimt, ArteDossier n.29). L’influenza
deriva principalmente dalle opere dei paesaggisti scozzesi, in particolare i
pittori della scuola di Glasgow, influenzando anche i pittori italiani (come
Pietro Fragiacomo, Bartolomeo Bezzi e Francesco Sartorelli) con impalpabili
venature, atmosfere vaporose e uno studio attento su come le luci si riflettono
nell’acqua.
Tra tutti i dipinti spicca senza alcun dubbio quello di Gustav
Klimt (1862-1918) intitolato Stagno al
mattino, (1899) il quadro che anticipa gli anni della maturità – dal 1900
al 1916 - del pittore austriaco che trascorre con la moglie Emilie Flöge nella
cittadina lacustre di Attersee ad ovest di Salisburgo.
Non è la prima volta che il
Palazzo Roverella di Rovigo ospita una mostra così importante, ma di sicuro
questa è la più affascinante e la più azzeccata che sia mai stata riprodotta:
non solo mostra un mondo di cui non eravamo praticamente a conoscenza, ma
mostra anche come queste opere abbiano influenzato la pittura italiana e come
sia sempre l’arte ad unire di più le persone, i cuori, i sentimenti e
soprattutto le anime.
Redazione
Redazione
Commenti
Posta un commento