La liberazione di Mosul non è la fine del terrorismo

E’ partita l’offensiva per liberare la città di Mosul dal dominio dell’Isis. La città era stata presa nel giugno del 2014 e ad oggi è l’ultima roccaforte del Califfato in Iraq. Se appena un anno fa l’Isis dominava 150 mila kmq di territorio, oggi governa solo 50 mila kmq circa. L’operazione non sarà una passeggiata: pare che i militanti dello Stato islamico utilizzeranno i civili come scudi umani, un problema non da poco per l’esercito iracheno. Se tutto andasse a buon fine l’Isis verrebbe cancellato dal Paese. 
Nonostante questa buona notizia, non si può certo dire che con la fine dello stato islamico sarà debellato il germe del terrorismo che verosimilmente continuerebbe a proliferare data la disomogeneità dell’area mediorientale. L’instabilità politica della regione è infatti una della prime cause dell’avanzata di gruppi estremisti. L’Iraq ha assistito allo smantellamento delle sue istituzioni da parte degli americani nella guerra del 2003. Ci sono stati dei tentativi di ricostruzione, tuttavia il percorso di institution building non è stato terminato e il mancato ancoraggio democratico ha provocato un vuoto di potere che è stato colmato dalle tribù locali e dalle milizie sciite. Nel 2007 l’allora capo del governo Nouri al-Maliki, di fede sciita, ha attuato la politica della “Sahwa” (risveglio) elargendo ingenti somme di denaro e armi alle tribù sunnite sostenendole temporaneamente. Nonostante ciò, questi gruppi non sono mai state integrati appieno all’interno degli apparati di sicurezza creando una forte decentralizzazione del potere e una perdita di legittimità del governo centrale. Inoltre, la politica fortemente confessionale di al-Maliki, basata su divisioni settarie, ha allontanato dal Paese le tribù sunnite, vittime di una dura repressione. Nell’ottobre 2014, il nuovo primo ministro Haidar al-Abadi ha fatto visita ai rappresentanti di queste tribù per farle rientrare in Iraq e far fronte comune contro il Califfato. La prima cosa che dice un iracheno quando gli si chiede delle sue origini è la tribù di affiliazione. Più che sentirsi cittadini, gli iracheni percepiscono un sentimento di appartenenza che trascende dai confini nazionali. Tradotto significa avere un Paese disunito in tante fazioni politiche e confessionali che sviluppano una vita sociale e politica parallela a quella dello Stato, non integrata nelle istituzioni irachene.


di Silvia Moranduzzo

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